Cosa aspettarsi dopo – Ripensare gli equilibri del post emergenza.
Riceviamo e pubblichiamo un interessante spunto di riflessione da parte del Direttore della Rivista InFormazione OIC, ing. Carlo Crespellani Porcella.
Qualcuno, in questi momenti di incertezze, di dubbi e di paure, prova a pensare come cambierà la nostra vita quando questo tsunami sarà passato. O meglio quando questo tsunami assumerà forma diversa nella nostra quotidianità.
Ognuno di noi, chi più chi meno, già si chiede infatti quali saranno i cambiamenti sociali e culturali dell’effetto coronavirus, a causa del quale abbiamo sperimentato la pseudo quarantena, gli arresti domiciliari blandi (per chi invece non ha vissuto il “41bis” in ospedale…).
Abbiamo sperimentato cosa sono i beni di prima necessità, l’importanza della comunicazione, l’abuso di informazioni, le norme di sicurezza, il senso di pericolo che non è palpabile né valutabile, la limitazione di libertà, l’intersezione impropria tra legalità e sanità, tra rispetto delle regole e buonsenso, tra ignoranza e intrinseca e mancanza di informazione, tra conoscenza puntuale e saperi generici. Abbiamo vissuto lo stacco tra vita sociale e familiare, immaginato la solitudine di chi non ha famiglia e l’egoismo camuffato. E anche gli egoismi di intere comunità, di intere nazioni. Per non parlare dei risvolti sanitari ed economici. L’overdose di isolamento finirà, ma non sarà più come prima. Rimarrà, dovrà rimanere per necessità e garanzia di sicurezza sanitaria, forse anche per paura, un margine comportamentale che ridurrà gli assembramenti, gli incontri sociali. Si adotteranno tante precauzioni. Questo cambierà in prospettiva il modo di muoverci fisicamente (qualcuno penserà perfino “meglio l’auto privata che il mezzo pubblico: è più sicura”), di costruirci il nostro mondo intimo e aumenterà il peso del nostro modo di relazionarci con gli altri attraverso le tecnologie.
Poi ci ri-immergiamo nella nostra esperienza del momento a casa e già sperimentiamo l’importanza degli spazi, la qualità degli spazi, della vista del cielo e del verde, il ruolo delle relazioni remote attraverso telefono, il web, le applicazioni multimediali, le videochat dei ragazzi, l’utilizzo di strumenti di lavoro in contesto domestico, per qualcuno i meeting virtuali con conferenze di lavoro, insomma il cosiddetto smart working, le prime ipotetiche lezioni scolastiche o universitarie online per chi non avesse mai avuto esperienza. Ed ancora relazioni familiari continuative, maggior silenzio esterno, maggior rumore interno, strade, piazze, locali, stadi, negozi vuoti. Pochi passi giusto per la spesa o per portare il cane a fare i suoi bisogni. Mobilità e trasporti praticamente ai minimi storici. Bisogna ritornare alle giornate con targhe alterne, le domeniche di austerity con i fermi automobilistici di un bel po’ di anni fa per ricordare come cambiavano i rumori di fondo, la larghezza delle strade senza macchine, il contatto diverso, i rapporti con le persone.
Ritorna in mente anche l’esperienza che iniziai a fare assieme a molti miei colleghi IBM agli inizi degli anni ’90 denominata port-it che permetteva di portarsi appresso su un portatile tutte le informazioni aziendali e potersi organizzare il lavoro a casa o da qualunque parte. Qualcuno parlava di telelavoro, noi aggiustavamo il tiro dicendo che era lavoro mobile, lavoro flessibile. Nasceva infatti la cultura dell’autonomia della gestione del proprio tempo (soprattutto nella mobilità degli spostamenti e dei luoghi) del lavoro, con vantaggi di funzionalità e flessibilità, di autogoverno organizzativo utile all’azienda come al lavoratore. Qualche rovescio della medaglia c’era, come non avere a casa l’ergonomia del posto di lavoro (se non avevi spazi idonei), la difficoltà a separare la dimensione lavorativa da quella familiare, qualche momento in cui potevi sentirti isolato. Ma le preoccupazioni si scioglievano come la neve al sole potendo stare in azienda coi colleghi per i meeting o quando volevi. C’era certamente già una cultura della responsabilità, del lavoro per obiettivi più che per tempo speso, motivo per il quale l’attuale smart working era a tutti gli effetti già nato. Magari senza cloud, senza bande di comunicazione su cui far viaggiare in rete raffinati multimedia.
Erano necessarie certo responsabilità e capacità da parte dei manager di saper valutare le prestazioni e l’impegno di ogni collaboratore. Ma si vivevano in quel contesto anni di cultura organizzativa che non sempre vedo oggi.
Poi vennero gli anni della multimedialità, di una startup che si occupava di business television, ovvero una tv aziendale basata su format massmediatici per la comunicazione organizzativa e per la formazione di grandi imprese. Erano gli inizi del secolo e anche se la banda di internet non permetteva ancora il cosiddetto streaming live (si usava il satellite) si intravvedevano le potenzialità delle trasformazioni nelle imprese e nelle organizzazioni. Poi ci fu un 11 settembre, (2001) con l’evento che trasformò il mondo, in quel caso la causa erano gli umani e non i virus. Cambiò il modo di spostarsi con gli aerei e si svilupparono le tecnologie della sicurezza che coinvolsero poi anche in modo massiccio quelle digitali dell’informazione. Nasceva l’era degli attentati, della paura, delle norme di sicurezza. Nessuna certezza, tranne quella che prima o poi succeda di nuovo qualcosa di inaspettato. Intelligence, sicurezza, tecnologie contro il terrorismo.
Ma già a metà degli anni 2000 ebbi una importante esperienza universitaria sull’ambito delle tecnologie di comunicazione e del ruolo delle reti a Pavia, dove vidi nascere i social network e l’innesto delle tecnologie nella dimensione sociale e dell’organizzazione della conoscenza. Anche attraverso questa esperienza scaturì un’opportunità che di fatto mi riportò in Sardegna e che apriva nuovi scenari all’utilizzo delle tecnologie digitali per il mondo della formazione e dell’apprendimento. Alla luce di un progetto veramente strategico concepito da (e con) Silvano Tagliagambe, nacque un’iniziativa finanziata dalla Regione, con i due atenei sardi, imprese di telecomunicazioni, di produzione multimediale e di formazione con cui si avviò un nuovo modello di apprendimento basato sulla formazione misto, online e anche in presenza. Si produssero materiali didattici di qualità, utilizzate applicazioni varie, strumenti di collaborazione, perfino ambienti immersivi tridimensionali, il tutto secondo riferimenti e modelli di apprendimento su un unico e articolato ambiente digitale. Anche tutto il mondo della scuola regionale stava per entrare con un altro progetto simile, ahimè soffocato sul nascere anche se già concepito nelle sue opportunità.
Anche questa esperienza mise in luce la reale possibilità e le straordinarie potenzialità di una società che si auto-organizza con azioni e atti, relazioni dirette e fisiche e che al tempo stesso sa gestire le capacità delle diverse dimensioni date dal digitale.
Queste esperienze le vedo rinascere in forma microscopica in occasione di quello che succede in questi giorni con tutti a casa per il coronavirus, percepite –credo- non solo da me, come prove generali per una vita un po’ diversa, dove la mobilità, la gestione del tempo, il senso di sicurezza, il sistema di relazioni trovano risposta su modi di operare più sostenibili basati anche su un modo maturo di usare le tecnologie digitali. Cambia la gestione del tempo, i ritmi, l’intimità e pertanto l’attività individuale deve trovare un nuovo equilibrio e nuovi modi di relazionarsi con gli altri, non solo come singoli, gruppi ma anche come comunità e reti sociali. Consci che però non si deve togliere neanche una briciola al senso di comunità, alla partecipazione e alla vita sociale. Il ruolo importante lo svolge la tecnologia, che va concepita e usata meglio, senza abusarne, aprendo alle funzionalità sociali e non lasciando alle multinazionali del web il primato dell’uso dei dati, ma guidando noi la danza nell’uso consapevole dell’informazione. Come se dicessi di meglio modulare l’uso di whatsapp e non di eliminarlo, di utilizzare i nostri dati (quindi i bigdata) per il benessere individuale e collettivo più che per il business di altri. Non solo garantendo la privacy dei dati, ma favorendo l’open data e la trasparenza, le applicazioni civiche che sviluppano le funzioni e l’organizzazione dei dati finalizzati ai servizi pubblici.
Forse dopo tanti stop and go, è arrivato il momento di entrare nella dimensione di smart life, quella in cui riusciamo a vivere con giusto equilibrio con le tecnologie e l’informazione, le relazioni sociali e il senso di responsabilità verso noi stessi, gli altri e la natura. Equilibrio dinamico, che sappiamo non è uguale per tutti, non è forever, ma è una intelligente (intesa però come saggia) conquista che ognuno di noi deve raggiungere giorno per giorno.