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Le sfide per il cambio di paradigma della sostenibilità

OVERVIEW

 

 

 

Le emergenze ambientali in atto impongono nuove scelte politiche, etiche e culturali. Per pianificare un futuro sostenibile siamo oggi davanti a una sfida epocale in campo ambientale, sociale, economico e istituzionale: solo una forte sincronia di intenti delle diverse comunità permetterà di vincerla. 

Dialogo tra Carlo Crespellani Porcella, direttore di inFormazione, e Gianluca Cocco, vice presidente OIC

C.C.P. Inizierei dal concetto di sostenibilità, che ci aiuta a capire cosa si intende per sviluppo sostenibile. Trovo rappresentativa di questi tempi, in particolare per ciò che riguarda i consumi e l’utilizzo di materia, una frase di Carlo Rubbia: «Siamo su un treno che va a trecento chilometri all’ora, non sappiamo dove ci sta portando e, soprattutto, ci siamo accorti che non c’è il macchinista». Come si concilia questa folle velocità di produzione e consumo e di crescita continua con la necessità di ridistribuzione delle risorse disponibili? Che definizione daresti tu di sostenibilità?

G.C. Tutto e subito, sempre di più, anche se non serve. Queste sono le caratteristiche della società dei consumi e della dismisura, nella quale crescono con velocità impressionante le merci e si trascurano le domande fondamentali sul senso di ciò che facciamo e sul benessere reale. L’eccesso come regola è insaziabile e si autoalimenta. Sui temi della crescita, dello sviluppo e del progresso è in atto da decenni un dibattito acceso, che parte dalla teoria classica Adam Smith, passa per il celebre discorso di Kennedy sul PIL, coinvolge Pasolini (con i suoi Scritti Corsari) e arriva a Papa Francesco. Comunque la si pensi, è evidente che la crescita continua1 in un mondo finito non è pensabile, mentre sviluppo2 e progresso sembrano essere oggi le diverse gradazioni della soluzione, orientate alla riduzione dello spreco. Per approfondire il concetto di sostenibilità partirei dal corretto rapporto uomo–natura e dalla loro conseguente compenetrazione: sul piano della conoscenza, si tratta di perseguire una visione olistica piuttosto che l’emergere di un predominio disciplinare, sia esso di tipo tecnico, scientifico, storico-culturale, politico-sociale, economico-finanziario, in quella che Enzo Tiezzi definiva transdisciplinarietà. Per usare un altro linguaggio, è interessante rileggere una delle lezioni americane di Calvino, la molteplicità: «Oggi non è più pensabile una totalità che non sia potenziale, congetturale, plurima». Occorre guardare tutto sotto angolazioni differenti, cogliendo le infinite reti e relazioni che compongono la complessità del nostro mondo. Tutto è intimamente connesso e la molteplicità deve dunque essere vista come straordinaria opportunità, così come – in campo microscopico – avviene per la meccanica quantistica, che trova le sue soluzioni proprio nella sovrapposizione di stati differenti. Per tornare alla definizione, come sempre l’etimologia ci viene in aiuto: deriva infatti dal latino sust nere, tenere sotto, sostenere. Ancora più immediato è il termine inglese sustain associato al pedale del pianoforte, che allunga il suono delle note e consente di legarlo in maniera armonica a quelle successive, con una metafora che ricorda evidentemente il succedersi naturale delle generazioni sul nostro pianeta. La sostenibilità acquista naturalmente un senso più ampio, corretto e misurabile se accostata a quattro sue dimensioni: ambientale, sociale, economica e (quella meno nota) istituzionale. Per sviluppo sostenibile si intende proprio la corretta interazione tra questi quattro aspetti. Nella crescente incertezza che caratterizza la realtà contemporanea – che cambia con imprevista rapidità – lo sviluppo sostenibile è un faro nella notte che indica la direzione, un fi lo rosso che collega gli argomenti più diversi, una mappa che defi nisce con chiarezza dove ci troviamo e dove dovremmo andare. Lo sviluppo sostenibile (e i suoi 17 sguardi sul nostro modo di vivere espressi dall’agenda 2030) sono una possibile modalità di pensiero plurimo e interdisciplinare: si tratta di un’economia organizzata per essere auto-rigenerante, che lavora in senso circolare. È un metodo possibile con cui una comunità di umani può progettare il migliore dei mondi possibili nel quale proseguire a lungo il proprio percorso, in armonia con lo spazio e le risorse fi nite a disposizione. Si tratta di ridurre l’utilizzo improprio delle risorse naturali, attraverso una modifi ca dei nostri consumi di beni e servizi, innovare i processi produttivi attraverso un aumento di effi cienza tecnologica e ridurre gli sprechi (di energia, di cibo, di materia). Non si tratta di un’utopia, ma di un cambio necessario. In questo senso, durante la nostra chiacchierata, mi ha incuriosito vederti disegnare uno schema colorato dei 17 obiettivi dell’agenda 2030 all’interno di un quadro defi nito dai quattro fattori dello sviluppo sostenibile.

 

C.C.P. In effetti lo schema è frutto di una rifl essione attenta su come rappresentare la sostenibilità non solo ambientale; è evidente che la complessità insita nei quattro macrotemi in gioco (posti negli spigoli) sovrappone tutti i valori del convivere sociale e civile, combinando i diritti e i doveri delle persone con le responsabilità della politica e coinvolgendo nel ragionamento l’economia e la fi nanza e i rapporti confl ittuali tra i poteri forti (dei ricchi) e i bisogni dei deboli. Dagli anni ’50 a oggi i metodi di calcolo del benessere sono erroneamente concentrati su indicatori come il PIL, Prodotto Interno Lordo (che ragiona in termini di transazioni in denaro, che non è una misura di equità e che tratta tutte le transazioni senza distinzione qualitativa), usato da ogni paese come unità di misura dei propri successi, con la crescita al centro delle politiche nazionali. Si tratta in realtà di una misura fuorviante del progresso di una società; esistono e sono già disponibili altri parametri, più adeguati, come il BES Benessere Equo Sostenibile (vedi fi gura con i 12 indicatori del BES). Mi viene in mente Pepe Mujica, ex premier dell’Uruguay; dando per primo uno straordinario esempio, sostiene che a guidare la vita di ciascuno debba essere il principio della sobrietà: «(…) concetto ben diverso da austerità (…) io consumo il necessario ma non accetto lo spreco. Perché quando compro qualcosa non la compro con i soldi ma con il tempo della mia vita che è servito per guadagnarli. E il tempo della vita è un bene nei confronti del quale bisogna essere avari. Bisogna conservarlo per le cose che ci piacciono e ci motivano. Questo tempo per se stessi io lo chiamo libertà. E se vuoi essere libero devi essere sobrio nei consumi.» Per riprendere e completare il punto precedente, dovremmo parlare di progresso, come evoluzione dello stato generale della popolazione, che trova fattori di benessere individuale e collettivo nella qualità di vita, nella convivenza pacifi ca, nella riduzione delle ingiustizie e differenze sociali, nella salute, nella libertà, nell’istruzione, nell’informazione e nella consapevolezza. Probabilmente è ciò che più si avvicina all’idea di sviluppo selettivo, capace di far progredire la società verso stati più felici, di maggiore benessere e in maggiore armonia con la sostenibilità di cui parlavamo prima. Ovviamente il rapporto dell’uomo con la natura ritorna costantemente in ogni ragionamento legato all’uso delle risorse naturali, soprattutto nella concezione della produzione umana del bene economico, che è fuori dai processi ciclici intrinseci della natura. Emerge l’idea di scarto, quindi di spreco, proprio perché non è integrato con altri processi in un fl usso di materia-energia circolare. Voglio dirti cosa mi piacerebbe invece vedere crescere in futuro: la prosperità, la salute, la sicurezza, la cultura e la pace. Non c’è limite al meglio; pensa al senso di comunità, che può essere potentissimo.

 

G.C. A proposito di limite… voglio andare controcorrente. Credo sia interessante e utile ripensare proprio al concetto di limite, esplorando quella vasta zona grigia tra coscienza di sé e coscienza collettiva. È proprio lì che si trovano le infinite soluzioni alle complesse equazioni del vivere insieme. Ormai è evidente che il nostro futuro sulla terra dipende dal porre un limite ai nostri consumi, così come la stessa democrazia è fondata su limiti dell’espansione personale. Alla luce di ciò dobbiamo rivedere i nostri spazi (d’azione, non solo fisici) sotto una luce diversa, cogliendo anche le arginature al nostro ego sconfinato come base sana di un equilibrio necessario. La pandemia amplifica questa sensazione: in tempi di Covid ci ritroviamo cuciti addosso obblighi che ci limitano e che contribuiscono a proteggerci (l’obbligo di mascherina e la distanza fisica sono solo due esempi). Nonostante da sempre l’umanità senta la necessità di definire specifiche regole di contenimento alla libertà assoluta (la stessa religione trasforma in peccato i comportamenti più pericolosi per la collettività), si tratta spesso di precetti distanti e non naturali per la nostra cultura, che devono essere metabolizzati e appresi; di certo la libertà gode nel nostro mondo di una considerazione ben più significativa. In realtà, in un mondo costituito da spazi e risorse finite, la libertà e l’uso delle risorse del mondo da parte degli altri inizia dove finisce la nostra. Ecco dunque emergere una prospettiva capace di farci abitare un nuovo senso del confine (ambientale, sociale, psicologico, etico), che deve adattarsi alle libertà e ai diritti altrui, vicini e lontani nel tempo. Occorre ragionare sui limiti naturali di sopportabilità del nostro delicato pianeta, ritrovando regole di rispetto, sobrietà e moderazione, osservando attentamente gli spazi e le identità che si muovono tra mondi, culture e possibilità diverse, riservando agli altri l’attenzione che abbiamo per noi stessi. Con un paragone storico, dobbiamo abbandonare (nuovamente) l’idea illuministica di uomo al centro dell’universo – con le sole relazioni umane come fine fondamentale – e ritornare verso l’idea romantica, capace di cogliere la sua appartenenza ad un ordine naturale più vasto e complesso, attraverso un pensiero armonico e interconnesso, idea che ha anticipato la visione ecosistemica del Novecento, in grado di spingerci verso una cultura laica della collaborazione, che spazia tra la biosfera (intesa come insieme degli organismi viventi) e la noosfera (che rappresenta la sfera del pensiero umano). Una diffusa consapevolezza può rappresentare il solo terreno comune abbastanza ampio da unire gli esseri umani come specie, nella ricerca intelligente di un futuro equilibrato e prospero nel pianeta.

 

C.C.P. Ci sono tante spie accese in questo momento nel cruscotto del mondo, siamo una macchina che procede a tutta velocità pur sapendo da tempo che rischiamo di andare fuori strada. Le analisi e gli scenari proposti a livello internazionale, europeo e regionale evidenziano il concretizzarsi di importanti trasformazioni ecosistemiche, territoriali, ma anche culturali, sociali e demografiche. Che fare?

 

G.C. Con una lettura paradossale – come in una geometria impossibile di Escher – possiamo affermare che gli elementi che ci circondano e ci alimentano (aria, acqua, suolo, biodiversità, cicli della natura) sono sotto il nostro assedio e peggiorano ogni giorno la loro qualità. Li stiamo influenzando, ne stiamo minando la costituzione: alla fine circondati e messi alle strette si arrenderanno. E noi con loro. Naturalmente anche questa appena descritta è una visione antropocentrica: il pianeta si salverà egregiamente da solo e noi, da biodiversità quale siamo, siamo destinati ad adattarci o a scomparire molto velocemente. Per resistere sarà dunque bene tener conto delle conseguenze dei cambiamenti climatici, dell’elevato tasso di perdita di biodiversità e, più in generale, delle veloci modificazioni in atto a livello globale, che ci impongono di adottare nuovi modelli economico-sociali, capaci di disaccoppiare il benessere dal consumo delle risorse, riconoscendo valore al capitale naturale, senza slegarlo da quello umano. Lo scioglimento dei ghiacciai e la frequenza con cui gli eventi meteorologici intensi e disastrosi si stanno verificando negli ultimi decenni sono solo alcuni dei processi autoalimentanti causati dalle emissioni umane di gas serra, con conseguenze gravi per tutta l’umanità. Secondo la comunità scientifica e le sue misurazioni, stiamo andando incontro a scenari nuovi e inquietanti, per evitare i quali sarà necessario un drastico mutamento di prospettiva e uno sforzo titanico di breve periodo. Servono scelte radicali e soluzioni globali. Occorre quel cambio di paradigma introdotto dallo storico della scienza Thomas Kuhn nella sua opera La struttura delle rivoluzioni scientifiche, capace di rivoluzionare nei fatti l’intero nostro vivere quotidiano.

LA SFIDA ETICA

C.C.P. Oltre alle teorie scientifiche e alle sue rivoluzioni, ci sono anche eventi come quello pandemico del COVID19, che rivoluzionano il nostro vivere e le nostre certezze, le nostre abitudini e le concezioni a cui riferirsi. Siamo di fronte a fenomeni prevedibili (non so se la pandemia possa far parte della Teoria del Cigno nero3), di impatto globale, che – al pari delle questioni migratorie – hanno origine nella crescita demografica, nella distribuzione iniqua delle risorse, delle conoscenze, delle tecnologie e più in generale del benessere. Non posso non pensare al film Matrix, nel quale il programma Agente Smith, rivolgendosi a Morpheus (umano, capo dei rivoltosi), pronuncia queste parole: “Desidero condividere con te una geniale intuizione che ho avuto, durante la mia missione qui. Mi è capitato mentre cercavo di classificare la vostra specie. Improvvisamente ho capito che voi non siete dei veri mammiferi: tutti i mammiferi di questo pianeta d’istinto sviluppano un naturale equilibrio con l’ambiente circostante, cosa che voi umani non fate. Vi insediate in una zona e vi moltiplicate, vi moltiplicate finché ogni risorsa naturale non si esaurisce. E l’unico modo in cui sapete sopravvivere è quello di spostarvi in un’altra zona ricca. C’è un altro organismo su questo pianeta che adotta lo stesso comportamento, e sai qual è? Il virus. Gli esseri umani sono un’infezione estesa, un cancro per questo pianeta: siete una piaga. E noi siamo la cura.” Il nostro agire è diventato davvero così pericoloso per la nostra stessa sopravvivenza?

 

G.C. Uno dei concetti chiave per comprendere ciò che accade è quello di crescita esponenziale di una grandezza in un determinato lasso di tempo. Fa impressione pensare a quanto fosse diverso il mondo solo ai primi del 1900: la popolazione mondiale di allora era pari a poco più di un miliardo e mezzo e le modifiche sull’ambiente non sembrava avessero ancora gli effetti irreversibili segnalati oggi dalla scienza; abbiamo davanti una sfida improba: dare dignità, spazio, lavoro, cibo e risorse a quasi 8 miliardi di umani, traguardando l’equità tra nazioni, quella tra specie e quella intergenerazionale. Un obiettivo che dovrebbe far tremare le vene dei polsi di qualsiasi governante. L’uomo ha sempre modificato l’ambiente in cui vive, fin dalle origini, adattando lo spazio circostante a sé e alla propria comunità. Fino al 1700 il tasso di crescita della popolazione mondiale è stato pari allo 0.04% annuale, un tasso decisamente lento. Naturalmente la fertilità era molto alta, ma la mortalità infantile bilanciava i conti. Oggi la popolazione attuale mondiale è soggetta a dinamiche differenti ed è più che quadruplicata in soli 100 anni. Per questo motivo nel 2000 il Premio Nobel Paul Crutzen coniò il termine Antropocene (composto dal greco νϑρωπος uomo-, con l’aggiunta del secondo elemento -cene-), suggerendolo come definizione dell’epoca geologica attuale, in cui l’ambiente terrestre, nell’insieme delle sue caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche, viene fortemente condizionato su scala sia locale che globale dagli effetti dell’azione umana, con particolare riferimento all’aumento delle concentrazioni di gas serra nell’atmosfera.

C.C.P. La comunità scientifica è praticamente concorde (ad eccezione di una percentuale minimale e fisiologica di negazionisti) che sono le attività umane le vere responsabili delle emissioni di gas serra, a loro volta causa del riscaldamento globale. L’industrializzazione partita a metà ‘800, per proseguire massicciamente in questo secolo, e le attività legate agli allevamenti, senza dimenticare i trasporti e i consumi energetici delle città stanno contribuendo ad alterare il clima. Abbiamo esplicitamente previsto nella rivista proprio alcuni articoli sul tema che analizzano le cause del cambiamento climatico, gli scenari e le possibili strategie di contrasto e di adattamento da parte della Regione Sardegna, che sul tema sta facendo un lavoro molto interessante e quasi pionieristico.

G.C. Miseri sono gli uomini e non è dato loro di vedere il futuro, ma solo di vivere immersi nella nebbia del presente.” Questo brano dell’Iliade sintetizza mirabilmente ciò che sta accadendo. L’ultimo degli innumerevoli avvertimenti degli scienziati, pubblicato recentemente sulla rivista Bioscience, è stato sottoscritto da ben 11.258 scienziati e scienziate di 153 nazioni, provenienti da ogni continente. “Chiaramente e inequivocabilmente la Terra è di fronte a una emergenza climatica” si legge nel documento, corredato di dati e grafici molto eloquenti, che si affiancano alle indicazioni già pubblicate dai rapporti dell’IPCC (International Panel for Climate Change). Nell’ultimo secolo abbiamo aumentato del 25 per cento le emissioni di CO2 in atmosfera, destabilizzando il clima e avvicinandoci a pericolosi punti di non ritorno (tipping point); la vera sfida sarà quella di riuscire a mantenere l’aumento medio della temperatura mondiale ben al di sotto di 2°C rispetto ai livelli preindustriali, come previsto dagli Accordi di Parigi del 2015. Al momento siamo lontani dall’obiettivo e le possibilità di raggiungerlo nei tempi prefissati sono davvero basse. Le istituzioni e le organizzazioni pubbliche e private sono dunque chiamate all’adozione urgente di nuove conoscenze, nuove capacità di gestione e comportamenti virtuosi e al passo con i tempi. La consapevolezza della delicatezza del mondo che abitiamo e della velocità con cui è messo a rischio è un fattore chiave per favorire il percorso di cambiamento necessario.

C.C.P. C’è una precisa direzione verso cui andare?

G.C. Non esistono soluzioni univoche; da una parte occorre la leva e il rispetto degli accordi internazionali, creando incentivi e disincentivi economici che guidino i popoli verso scelte più sostenibili, dall’altro occorrono azioni individuali, capaci di sommarsi fino a raggiungere dimensioni trascinanti. Perché le scelte degli individui possano fare la vera differenza, serve però che ognuno si senta coinvolto e capace di azioni concrete nella propria sfera di influenza.

LA SFIDA CULTURALE

C.C.P. Tu che lavori presso le istituzioni, cosa osservi?

G.C. Su questo tema la Regione Sardegna sta lavorando attivamente sia sulla mitigazione che sull’adattamento climatico, facendo in modo che quest’ultimo venga introdotto con metodo nelle pianificazioni alle diverse scale – Regione, Province, Comuni – e nel lavoro ordinario e quotidiano dei professionisti pubblici e privati. Anticipare ciò che potrebbe avvenire in futuro ed evitare azioni di “mal-adattamento” è il compito che la Regione si è data con la propria Strategia (SRACC – Strategia Regionale sull’Adattamento ai Cambiamenti Climatici). Oggi abbiamo uno strumento che può essere utilizzato per la pianificazione e la spesa di risorse regionali, nazionali ed europee in chiave adattativa, capace di includere l’aspetto climatico all’interno di piani e programmi di sviluppo, politiche o strategie di gestione, già in essere o in stato di attuazione. In termini tecnici si parla di facilitare il mainstreaming.

C.C.P. Se da una parte abbiamo la conoscenza scientifica, dall’altra abbiamo la necessità di educare la cittadinanza, intesa nel senso più ampio possibile, all’uso sostenibile delle risorse e al contrasto al cambiamento climatico (mitigazione e adattamento), attraverso la formazione diffusa, professionale e di qualità. Un’educazione che deve passare per le istituzioni scolastiche di vario ordine e grado ed estendersi a tutta la società civile: da una parte gli studenti devono essere messi in condizione di possedere le conoscenze e i processi cognitivi che consentono di valutare e comprendere la realtà complessa in cui sono immersi al fine di prendere decisioni, dall’altra occorre una visione allargata in grado di raggiungere gli ambienti domestici e quelli professionali/ lavorativi. Ovviamente la sedimentazione culturale ha i suoi ritmi, ma contemporaneamente emerge un senso di “urgenza”, di agire tempestivamente. So che in tal senso la Regione ha avuto esperienze di successo, cercando proprio di coniugare conoscenza e azione in un processo strutturato di formazione collettiva.

G.C. È proprio così. La complessità dei fenomeni globali in atto richiede un profondo cambio culturale, sia dei decisori di oggi che delle generazioni di domani. Esiste una locuzione latina che a mio parere descrive bene ciò che dobbiamo fare: festìna lente, che significa “affrettati lentamente”, “affrettati, ma con calma”; l’espressione è attribuita dallo storico Gaio Svetonio all’imperatore Augusto; si tratta di un ossimoro, quella figura retorica che, in una locuzione, accosta termini che esprimono concetti contrari. In questo momento velocità e lentezza sono proprio le caratteristiche che ha la tematica dell’educazione all’ambiente e alla sostenibilità. Bisogna fare in fretta è il nuovo monito sollevato da tutta la comunità scientifica. Le motivazioni trovano spazio in tutto il numero della rivista: servono decisioni immediate e radicali. L’educazione all’ambiente e alla sostenibilità dei cittadini (e dei decisori!) è certamente una chiave di trasformazione socio-economica per spingere quanto più velocemente possibile le nostre azioni del vivere quotidiano nella giusta direzione. Ma per temi così complessi serve anche il tempo della riflessione profonda, della calma. L’educazione è per definizione una tematica lenta: ha bisogno di continuità, cura, attenzione, ragionamento, tempi dilatati e soprattutto di una disamina ampia e critica delle informazioni, capace di costruire – anche attraverso l’esperienza – quella consapevolezza alla base dei comportamenti virtuosi necessari all’evoluzione sociale e ambientale che si muove nel più ampio campo di gioco possibile. Uno sguardo così esteso e pervasivo necessita del tempo giusto perché ogni componente contribuisca a migliorare gli altri, in un circolo virtuoso nel quale eterogeneità, disponibilità al confronto e alla discussione, propensione al nuovo e all’imprevisto assicurano quella pluralità di vedute rispettosa delle potenzialità e della storia dei singoli individui, delle loro aggregazioni e dell’intera comunità. In questa alternanza disarmante tra fretta e calma si trovano tutti coloro che a diverso titolo lavorano sull’educazione ambientale, divisi tra l’urgenza di intervenire a più livelli per evitare l’irreparabile che gli scienziati dimostrano essere alle porte e la lentezza necessaria perché il seme culturale faticosamente piantato cresca nel giusto humus ecologico, per poi diventare l’albero sul quale si avvolgono in armonia gli altri aspetti del vivere civile. La rete INFEAS della Sardegna (Informazione e Formazione per l’Educazione all’Ambiente e alla Sostenibilità), gli Enti che la compongono e i suoi CEAS (Centri di educazione ambientale) sono attrezzati, formati e sostenuti (anche dalla Regione) proprio per lavorare in questa direzione: una straordinaria possibilità di portare quotidianamente sul territorio e nelle scuole i temi che sono trattati in questo numero, attraverso la serietà e la competenza degli educatori sardi, capaci di affrontare la sfida della complessità delle realtà ecologiche (e umane), con un approccio al presente e alla prospettiva futura sempre volto alla ricerca di soluzioni positive ai problemi e alle criticità, paziente, capace di ascolto, propenso alla facilitazione, al lavoro sperimentale e a quello innovativo ed esperienziale.

C.C.P. Alcuni spunti su questo tema credo sia doveroso prenderli dall’Enciclica Laudato Si’, straordinario documento di disarmante chiarezza, che celebra nel 2020 il suo quinto compleanno e risulta al contempo profondo e innovativo. Papa Bergoglio è stato illuminante: l’ecologia integrale deve diventare il nuovo modello di giustizia, perché la natura non è una mera cornice della vita umana. “È giunto il momento di accettare un certo declino in alcune parti del mondo procurandosi risorse per crescere in salute in altre parti”. “È necessario che le società tecnologicamente avanzate siano disposte a incoraggiare comportamenti caratterizzati dalla sobrietà, riducendo i consumi energetici e migliorando le condizioni del loro utilizzo”. Soprattutto – chiarisce Francesco – “non basta conciliare, in via di mezzo, la cura della natura con il reddito economico, o la conservazione dell’ambiente con il progresso. Su questo tema, la via di mezzo è solo un piccolo ritardo nel disastro. È solo questione di ridefinire il progresso: in questo contesto il discorso della crescita sostenibile diventa spesso un diversivo e un mezzo di giustificazione (…)”. Alla luce di questi spunti, profondamente orientati all’equità, non solo tra umani, ma anche con altri esseri viventi del pianeta, appare evidente la richiesta accorata di una conversione ecologica, un cambiamento di rotta, affinché l’uomo si assuma la responsabilità di un impegno per la cura della casa comune. La direzione tracciata dal Papa è chiarissima e vede tutti noi sulla stessa barca (in un mare buio e tempestoso). Non è un caso che l’ultima enciclica si intitoli “Fratelli tutti”, proprio per testimoniare la fraternità, l’amicizia sociale e il legame con lo stesso destino. Una comunità di destino, appunto. Ci attende davvero moltissimo lavoro da fare. Se sei d’accordo chiudiamo questa conversazione con alcune parole chiave, come utile indicazione per modificare in senso eco-logico il futuro che ci aspetta.

G.C. A me vengono in mente queste tre: misura, rispetto e coraggio. Dopo una serie straordinaria di rivoluzioni negli ultimi secoli, con una crescita economica esponenziale generata anche dall’utilizzo di combustibili fossili accumulati nel sottosuolo nei milioni di anni passati – consumati peraltro in un battito di ciglia – l’uomo attraversa oggi un’era che porta il suo nome e che è caratterizzata da una ricchezza senza precedenti. Nonostante diversi conflitti ancora in essere, stiamo probabilmente attraversando uno dei periodi più pacifici della storia, che ha portato l’umanità verso modificazioni sociali, politiche, culturali ed economiche mai viste. Come contropartita stiamo compromettendo fino alle fondamenta il luogo dove abitiamo: siamo una nave scricchiolante che avanza verso la tempesta, il mare è pieno di pericoli e all’orizzonte le onde che arrivano sembrano sempre più minacciose. Cosa suggerire al Capitano della nave e al suo equipaggio? Misura, rispetto e coraggio. Misura nella sua doppia valenza di conoscenza dei nostri limiti e di calcolo dei parametri di bordo, perché una volta nota la direzione in cui vogliamo andare, l’interpretazione dei dati (quelli che oggi gli scienziati ci mettono a disposizione non sono certamente dati confortanti) è l’unico modo che abbiamo per gestire la nave e portarla verso le mete prefissate; rispetto per il mare in cui ci muoviamo e per i nostri compagni di viaggio (siano essi altri umani di oggi e di domani o altre specie animali); coraggio, per avere una visione alternativa, per dare forza e visione su scelte tutt’altro che condivise, per superare le condizioni avverse. Dovremo essere capaci di creare quelle competenze di cittadinanza (Amartya Sen le intende come cittadinanza consapevole, responsabile, partecipante) in grado di aiutare le persone e le comunità a diventare protagoniste attive e responsabili dei processi di progettazione e costruzione del nuovo mondo.

C.C.P. Questa è una visione propositiva, direi decisamente ottimista. Lo sei davvero?

G.C. Non esattamente, ma mi piace l’idea di lavorare ogni giorno per una illogica utopia, per utilizzare un termine di Gaber, raggiungendo il massimo risultato per me possibile con il massimo sforzo che posso. Appare chiaro in tutto il numero che le soglie di criticità e sostenibilità sono state superate praticamente in ogni campo, ma che parallelamente sono in atto politiche, strategie e azioni condivise. Forse chi si ferma in tempo non è perduto. L’ostacolo al percorso verso la natura (in salita, e dunque rallentato) sarà la nostra stessa natura. Le conclusioni della nostra conversazione possiamo lasciarle alle ultime parole del primo libro di Yuval Harari – Sapiens, da animali a dèi (2011), che si riferisce all’evoluzione umana con queste parole: «Siamo passati dalle canoe alle galee, dai battelli a vapore alle navette spaziali, ma nessuno sa dove stiamo andando. Siamo più potenti di quanto siamo mai stati, ma non sappiamo che cosa fare con tutto questo potere. Peggio di tutto, gli umani sembrano più irresponsabili che mai. Siamo dèi che si sono fatti da sé, a tenerci compagnia abbiamo solo le leggi della fisica, e non dobbiamo rendere conto a nessuno … Può esserci qualcosa di più pericoloso di una massa di dèi insoddisfatti e irresponsabili che non sanno neppure ciò che vogliono?»

 


1 Citando Kenneth Ewart Boulding (economista, pacifista e poeta inglese): “Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un folle, oppure un economista”.
2 Lo sviluppo (per definizione di alcuni) comprende anche elementi di qualità della vita di natura sociale e culturale.

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